Ho di recente riletto il saggio “Contro l’ideologia del merito” di Mauro Boarelli e ho sentito la necessità di buttare giù (per quello che può valere), su questo spazio, alcune riflessioni. Quello di Boarelli è un lucidissimo saggio che spiega perché dovremmo smetterla di sostenere l’idea di “merito” nella società e nella scuola in particolare.
Nel nostro sistema socio- economico ogni spazio è messo a profitto e le persone sono impegnate in una continua competizione senza fine. Anche la scuola è diventata uno spazio competitivo che genera capitale. In
questo caso si parla di “capitale umano”, ovvero un bagaglio di conoscenze, abilità e competenze che ogni studente può “spendere” nel mondo del lavoro per poi generare capitale vero: ed ecco come il capitalismo vuole ottenere un profitto dall’istruzione.
In questa ottica, chi studia è “cliente” del sistema educativo e ottiene un “servizio”: le famiglie investono, tramite le tasse, per ottenere che la figlia riescano ad avere successo nel sistema capitalista. Però nel capitalismo le ricchezze, per definizione, non sono redistribute equamente e quindi il capitale si accumula nelle mani di poche persone.
Ma l’ideologia del “merito” è l’asso della manica del capitalismo perché giustifica tutto: se hai successo te lo sei meritata perché hai lavorato sodo; se invece sei poverə è colpa tua perché non ti sei impegnatə.
Per la meritocrazia quindi la disuguaglianza appare come un fatto naturale mentre in realtà essa è una
condizione intrinseca e necessaria del capitalismo.
Ecco perché il concetto di merito anche nella scuola è stato il più grande successo del capitalismo. La meritocrazia è usata come giustificazione della selezione sociale dellə studenti nel mercato del lavoro post-scuola, a partire però da una situazione di partenza già diseguale.
Quindi, quando studenti di famiglie povere non riescono a scalare il cosiddetto “ascensore sociale” per il sistema meritocratico è colpa loro che non si impegnano. Naturalmente, come dice Gianni Morandi, uno su mille dellə persone povere ce la fa e resta dunque sempre più forte l’illusione meritocratica. Quello che si omette è che lə altrə che invece ce la fanno sono, di solito, già ricchə.
Dunque la scuola diventa uno strumento del mercato del lavoro non un luogo di liberazione sociale. Per questo l’istruzione è diventata per “competenze”: la scuola vira verso la costruzione di saperi strumentali anziché saperi critici. Detto in altre parole, chi studia lo fa per adattarsi allo status quo economico-sociale e non per
criticarlo costruttivamente. Quindi, tutto il processo educativo diventa una misurazione delle “competenze” per
capire chi “merita” e chi no.
Le competenze sono misurate con presunti criteri oggettivi tramite test standardizzati che possono essere sottoposti a chiunque. Questo processo appiattisce ancora di più l’istruzione perché da un lato non ci sono più spinte creative se non a fini utilitaristici (es.: ho un’idea, divento riccə, mi “merito” il successo), dall’altro lato qualsiasi cosa è misurabile con un test, quindi qualsiasi cosa è considerata una competenza.
Chi fa i test decide dunque quali competenze misurare e, secondo le esigenze del status quo, cosa sia
meritevole. Questo è un atto politico: si usa il “merito” per selezionare, creare disuguaglianze e formare nuove
gerarchie sociali. Bisogna ribaltare la narrazione del “merito”. Dovrebbe valere il principio di uguaglianza, che tutela le differenze da persona a persona. Il “merito” mette invece a repentaglio una società autenticamente
democratica.
Tutto questo accade ogni giorno tra i banchi di scuola. Le competenze, le verifiche, le valutazioni, sono tutti
strumenti del “merito” che tentano in tutti i modi solo di innescare un forte individualismo nello studio e nelle prospettive future della studenti. Dobbiamo invece tornare a scuola una dimensione sociale in cui si apprende collettivamente, non individualmente, per far sì che la classe sia uno spazio in cui immaginare insieme, docenti e studenti, un mondo più democratico e meno diseguale.