la meritocrazia a scuola è una pessima idea

Ho di recente riletto il saggio “Contro l’ideologia del merito” di Mauro Boarelli e ho sentito la necessità di buttare giù (per quello che può valere), su questo spazio, alcune riflessioni. Quello di Boarelli è un lucidissimo saggio che spiega perché dovremmo smetterla di sostenere l’idea di “merito” nella società e nella scuola in particolare.

Nel nostro sistema socio- economico ogni spazio è messo a profitto e le persone sono impegnate in una continua competizione senza fine. Anche la scuola è diventata uno spazio competitivo che genera capitale. In
questo caso si parla di “capitale umano”, ovvero un bagaglio di conoscenze, abilità e competenze che ogni studente può “spendere” nel mondo del lavoro per poi generare capitale vero: ed ecco come il capitalismo vuole ottenere un profitto dall’istruzione.

In questa ottica, chi studia è “cliente” del sistema educativo e ottiene un “servizio”: le famiglie investono, tramite le tasse, per ottenere che la figlia riescano ad avere successo nel sistema capitalista. Però nel capitalismo le ricchezze, per definizione, non sono redistribute equamente e quindi il capitale si accumula nelle mani di poche persone.

Ma l’ideologia del “merito” è l’asso della manica del capitalismo perché giustifica tutto: se hai successo te lo sei meritata perché hai lavorato sodo; se invece sei poverə è colpa tua perché non ti sei impegnatə.
Per la meritocrazia quindi la disuguaglianza appare come un fatto naturale mentre in realtà essa è una
condizione intrinseca e necessaria del capitalismo.

Ecco perché il concetto di merito anche nella scuola è stato il più grande successo del capitalismo. La meritocrazia è usata come giustificazione della selezione sociale dellə studenti nel mercato del lavoro post-scuola, a partire però da una situazione di partenza già diseguale.
Quindi, quando studenti di famiglie povere non riescono a scalare il cosiddetto “ascensore sociale” per il sistema meritocratico è colpa loro che non si impegnano. Naturalmente, come dice Gianni Morandi, uno su mille dellə persone povere ce la fa e resta dunque sempre più forte l’illusione meritocratica. Quello che si omette è che lə altrə che invece ce la fanno sono, di solito, già ricchə.

Dunque la scuola diventa uno strumento del mercato del lavoro non un luogo di liberazione sociale. Per questo l’istruzione è diventata per “competenze”: la scuola vira verso la costruzione di saperi strumentali anziché saperi critici. Detto in altre parole, chi studia lo fa per adattarsi allo status quo economico-sociale e non per
criticarlo costruttivamente. Quindi, tutto il processo educativo diventa una misurazione delle “competenze” per
capire chi “merita” e chi no.

Le competenze sono misurate con presunti criteri oggettivi tramite test standardizzati che possono essere sottoposti a chiunque. Questo processo appiattisce ancora di più l’istruzione perché da un lato non ci sono più spinte creative se non a fini utilitaristici (es.: ho un’idea, divento riccə, mi “merito” il successo), dall’altro lato qualsiasi cosa è misurabile con un test, quindi qualsiasi cosa è considerata una competenza.

Chi fa i test decide dunque quali competenze misurare e, secondo le esigenze del status quo, cosa sia
meritevole. Questo è un atto politico: si usa il “merito” per selezionare, creare disuguaglianze e formare nuove
gerarchie sociali. Bisogna ribaltare la narrazione del “merito”. Dovrebbe valere il principio di uguaglianza, che tutela le differenze da persona a persona. Il “merito” mette invece a repentaglio una società autenticamente
democratica.

Tutto questo accade ogni giorno tra i banchi di scuola. Le competenze, le verifiche, le valutazioni, sono tutti
strumenti del “merito” che tentano in tutti i modi solo di innescare un forte individualismo nello studio e nelle prospettive future della studenti. Dobbiamo invece tornare a scuola una dimensione sociale in cui si apprende collettivamente, non individualmente, per far sì che la classe sia uno spazio in cui immaginare insieme, docenti e studenti, un mondo più democratico e meno diseguale.

ma a che serve la scuola?

Ma a che serve la scuola? Mi verrebbe da dire che serve a creare le condizioni per migliorare il mondo, che serve a rimuovere tutti i potenziali ostacoli che bloccano il benessere collettivo. E la scuola potrebbe farlo con la condivisione di idee, con lo studio collettivo di temi (piuttosto che conoscenze semplici). Ma la realtà purtroppo è diversa.

In realtà la scuola, da sempre, è uno strumento classista che riproduce esattamente le stesse disuguaglianze già esistenti nella società. Non trasforma nulla, al massimo riposiziona un gradino più su o più giù.

Anche quando qualcunə ce la fa, siamo comunque di fronte al meccanismo della lotteria: qualcunə vince, ma resta una vittoria individuale e non un riscatto collettivo. E, comunque sia, chi vince non trasforma nulla: semplicemente si adatta allo status quo. La scuola è una macchina che premia chi si adatta meglio alle logiche dominanti, qualunque esse siano.

La didattica, nel corso degli anni, è diventata uno strumento spietato per la logica dell’adattemento dello status quo. Infatti, le metodologie didattiche non tradizionali oggi sono usate con un unico scopo: indorare la pillola da ingoiare. E quella pillola è lo status quo.

Le metodologie e i ragionamenti sulla didattica di tantə pensatorə della storia democratica avevano un altro scopo: cambiare la società, possibilmente in meglio. Oggi invece, sotto forma di pacchetti di corsi di formazione o percorsi abilitanti ministeriali, queste pratiche didattiche ci sono presentate come meri strumenti da inserire nel quadro dell’attuale contesto scolastico che ha solo uno scopo: guardare al mercato del lavoro così da generare per le aziende un profitto a lungo termine grazie all’investimento statale (leggi: tasse) fatto nella scuola.

In che modo le pratiche didattiche democratiche sono adattate alle logiche dello status quo? Con il meccanismo dei voti, dei debiti e dei recuperi, delle promozioni e delle bocciature. Se volessi fare una didattica democratica e critica avrei bisogno di tempi e modi che non possono incastrarsi con l’idea che ogni cosa che faccio debba avere un numero, un valore, appiccicato vicino.

Ma è così che l’attuale sistema mangia ogni desiderio, ogni immaginazione. Il meccanismo è sempre lo stesso: un’idea critica e trasformativa da portare a scuola viene burocratizzata, incanalata nei voti ufficiali, riportata a mero sapere da studiare. Se hai una buona metodologia didattica che riesce potenzialmente a scardinare una riflessione critica in classe, ecco che arriva la burocrazia del voto a riportare tuttə sul pianeta Status Quo (capitalista).

E allora io mi chiedo: ma questo il lavoro che noi insegnanti vogliono fare per 40 anni? Farci fagocitare fino allo sfinimento pensando di star facendo qualcosa di veramente trasformativo mentre invece non facciamo altro che riprodurre le stesse dinamiche che hanno creato problemi alla nostra generazione?

Lo so che lo status quo, il sistema capitalista, è forte e noi cerchiamo di resistere in tutti i modi all’inerzia che sta portando la scuola sulla strada della standardizzazione e della modalità da ufficio di collocamento. Ma forse non basta. Tuttə ci preoccupiamo del futuro sperando di farcela, ma l’amara verità è che noi possiamo pure farcela, ma se non ce la facciamo tuttə, a che serve la scuola?

Perché se non ce la facciamo tuttə, allora la scuola serve solo a riprodurre lo status quo dove, appunto, non tuttə ce la facciamo. E così via. Ma per quanto tempo ancora?

aboliamo le interrogazioni a scuola?

Perché esistono le classiche e intramontabili interrogazioni a scuola?

Gran bella domanda. Qualsiasi docente vi dirà che le interrogazioni servono per testare la capacità espositiva di chi studia. Lo sai ripetere? Bene, allora hai studiato e, presumibilmente, capito ciò che hai studiato. Non fa una grinza, o almeno così sembra. Tra poco ci torniamo.

Altro aspetto non meno essenziale è: ti devo mettere un voto. Eh, già: regaz, io alla fine devo tirare fuori un numero quindi vi interrogo e stiamo a posto. Ti chiedo tre-quattro cose, tu rispondi e decido un voto, idealmente in base a una griglia appositamente redatta per la valutazione orale. Tu parli, io metto il voto. Non sono ammesse altre opzioni. Ciò che dice lə studente è oggetto di voto positivo se è corretto, di voto negativo se è sbagliato.

Dunque le interrogazioni esistono perché, banalmente, sono il modo più economico per verificare le capacità espositive di una persona. Chi interroga capisce subito se qualcuno ha studiato oppure no. Entrando più nello specifico delle mie materie, con la matematica è come sparare sulla Croce Rossa: se non hai studiato probabilmente si vede già da come cammini verso la lavagna.

È successo pure a me, in prima liceo: mi sono distratto un attimo, il prof mi chiamò alla lavagna e mi chiese di calcolare (a+b+c) al quadrato. Io tentai di ricordarmi la regola che lui aveva appena spiegato – e lui quella voleva che ripetessi a menadito – ma io mi inceppai. Tornato a posto mi accorsi che avrei potuto fare il semplice prodotto di (a+b+c) con sé stesso avrei trovato la soluzione, anche se non era ciò che il prof voleva sentirsi dire. Presi un bel 2.

Questa è la scuola che tuttə conoscono. Questa è la scuola di film, serie TV, aneddoti, ricordi – anche ricordi di pochi anni fa, come si evince dal mio caso del 2 in matematica.

A mio avviso, le interrogazioni hanno, almeno, 4 problemi.

Problema #1: le interrogazioni sono come i calci di rigore. Se quel giorno, quell’ora, tu sbagli, è quel giorno e quell’ora che prendi un voto. Roberto Baggio è stato vittima di un’interrogazione…ehm di un calcio di rigore nel 1994, ma nessuno ha messo in discussione il suo reale valore.

Problema #2: se interrogo oggi una persona ovviamente non la interrogo domani. Quanto può essere importante il tempismo di una interrogazione? Ancora ricordo, con orrore, estrazioni numeriche, sguardi ai giorni del calendario, numeri di pagina di libri aperti a caso e sommati altrettanto a caso solo per, sì, esatto, solo per interrogare te! Ma supponiamo che ti abbia interrogato oggi: sarebbe davvero ingenuo pensare da parte mia, il prof, che tu studierai matematica anche domani. In fondo, perché dovresti? Onestamente dico, chi te lo fa fare! Sarai interrogato tra due mesi, hai mille altre materie da studiare…caspita sembra già di essere all’università certe volte. Sapete che vi dico: non ha alcun senso didattico tutto ciò.

Problema #3: su cosa interrogo? Partiamo dagli esercizi per casa…ma dove finiamo? Oppure, prendiamo questo esercizio che mi piace molto…al prof, ma a me studente proprio per niente! E poi, come evitare quella sensazione che allə compagnə di classe è capitato un esercizio nettamente più facile. Come se ne esce? Non se ne esce! Alla fine si interroga per il voto, e il voto serve sia a me prof per la collezione quadrimestrale sia allə studente per districarsi nel ginepraio in cui si è infilato dal 15 settembre.

Problema #4, il peggiore: le interrogazioni producono ansia, angoscia, sofferenza. No, non esagero per niente: è così. Essere lì, sulla graticola a rispondere domande è una tortura. Si potrebbe obiettare che “ehi, ma la vita è così, gli esami non finiscono mai”. Sarà pur vero, per carità, ma ha un senso didattico? Siamo a scuola a imparare matematica o siamo all’Università della Vita? Entriamo ogni giorno a scuola solo per capire come soffrire da grandi e adattarci a questo mondo o per immaginarne uno nettamente migliore?

Sarò ingenuo, ma io immagino la scuola come punto di partenza per creare un mondo nettamente migliore, non come palestra per allenarsi a sopravvivere al pessimo e diseguale mondo attuale. Inoltre, inutile girarci intorno, ma ansia, angoscia e sofferenza – anche se nel migliore dei casi prodotti dall’inconsapevole (fino a un certo punto) prof. – sono espressione di una relazione tremenda di potere autoritario totalitario. Chi insegna ha potere, nell’interrogazione ha sempre la domanda pronta per metterti in difficoltà. E se ti capita la domanda sfigata, nell’ora sfigata, nella giornata sfigata della tua settimana sfigata, beh, c’è poco da fare: la scure dell’ autoritaria dittatura si abbatterà su di te tramite la pervesione tecnologica del Registro Elettronico.

Le interrogazioni, in sostanza, sono praticamente anti-democratiche. Ecco perché bisogna ripensare profondamente a questo aspetto se si vuole fare un’educazione democratica. E allora, ribaltiamo tutto: aboliamo le interrogazioni e inventiamoci nuove pratiche per valutare – che non è necessariamente mettere un voto numerico, non dimentichiamolo.

notte fonda prima degli esami

Ormai l’Esame di Stato, ovvero la cosiddetta “maturità”, ha un secolo di esistenza. Nel 1923, per la prima volta nella storia italiana, lə studenti si sono dovutə confrontare con un Esame di Stato, all’epoca chiamato esame di maturità.

Era, quello del 1923, un esame di una difficoltà estrema: quattro prove scritte e orali, commissioni composte da professori universitari. Una selezione degna degli Hunger Games. Per farvi capire bene: erano oggetto d’esame tutti gli argomenti dell’intero ciclo di studi del liceo. Inoltre lə studenti dovevano fare l’esame in una scuola diversa da quella in cui avevano studiato, con spostamenti alquanto farraginosi.

Ma chi ha avuto questa brillante idea dell’esame di maturità? Tutto nasce con il Regio Decreto n. 1054 del 6 maggio 1923. Siamo all’inizio dell’era fascista e ministro dell’istruzione era Giovanni Gentile. Questo piccolo contesto storico già ci dice molto: l’idea di introdurre l’esame era per avere una scuola molto classista, in cui l’accesso all’università era segnato da una selezione molto spietata. Quell’anno infatti si ebbe una percentuale spropositata di studenti bocciatə: solo il 55% fu promosso alla maturità scientifica, per esempio.

Visti i risultati, pure il regime fascista dovette rendersi conto che così non poteva andare: i ministri fascisti Pietro Fedeli prima nel 1929 e Cesare Maria de Vecchi pochi anni dopo apportarono delle modifiche per ammorbidire l’esame – per esempio si decise di far studiare solo i programmi dell’ultimo anno di corso.

Con la guerra ci fu una fase in cui si tornò al semplice scrutinio finale, senza esame. La situazione fu ripristinata però nel 1952, 7 anni dopo la fine della guerra, dal ministro democristiano Guido Gonnella che con la legge n. 1059 del 25 luglio 1952 praticamente ripristinò l’esame di maturità gentiliano di 30 anni prima dove si poteva chiedere i programmi degli ultimi due anni di corso (per la precisione, cenni del penultimo anno di corso). Comunque sia, alè, bentornatə al 1923. Lə diplomatə diventarono il 74% circa.

Il decreto legge n. 9 del 15 gennaio 1969, ministro democristiano Fiorentino Sullo, portò la maturità alla sua versione più longeva: due prove scritte e due materie da portare al colloquio orale, voto in sessantesimi, commissione completamente esterna tranne una persona interna. E con la riforma Sullo restiamo più o meno sempre sull’impianto gentiliano, ma lə diplomatə arrivarono a percentuali intorno al 90%.

E così arriviamo al 1997 con la riforma Berlinguer (primo ministro dell’istruzione del centro sinistra a riformare l’esame) e si passa da maturità a Esame di Stato: tre prove, commissione metà esterna metà interna. Questo impianto resiste qualche anno ma poi la cinghia della legge finanziaria del 2001 (governo Berlusconi, ministra dell’istruzione Moratti). Infatti viene eliminata la commissione esterna per risparmiare (ecco perché la riforma dell’Esame di Stato in questo caso fu inserita all’interno di una legge finanziaria).

Dopo ciò abbiamo avuto Fioroni che ritornò a mezza commissione esterna ma soprattutto la ministra Gelmini: oltre agli 8 miliardi di euro di tagli alla scuola pubblica, per l’ammissione all’esame divenne necessario avere la sufficienza in tutte le materie. Moltə studenti non vengono ammessə all’esame del 2009. Poi, negli ultimi anni, abbiamo avuto l’invasione del digitale; con il governo Monti, ministro Profumo arrivò il mitico plico telematico per le prove d’esame.

E infine, come non dimenticare il governo Renzi: arriva l’alternanza scuola-lavoro (ora PCTO) al colloquio orale e poi il requisito delle prove INVALSI. L’Esame di Stato è stato un po’ scalfito solo dalla Covid-19 nella fase emergenziale, ma quest’anno, l’anno del centenario, siamo a due prove scritte più colloquio orale con PCTO, commissione metà esterna e metà interna.

Che cosa è accaduto in questi 100 anni, insomma? A parte le riforme che si sono succedute, c’è un filo conduttore chiaro: l’idea gentiliana di selezione in uscita. Questo approccio nato da una filosofia prettamente fascista non siamo mai riuscitə a scrollarcelo di dosso. Sebbene le percentuali di promossə all’Esame di Stato rasentino ormai il 99% e rotti, tuttavia è l’ideale dietro questa prova che resiste anche dopo un secolo. In 100 anni non si è neanche solo immaginato un’uscita dal percorso scolastico differente da quello teorizzato dal ministro fascista Giovanni Gentile.

Chi comunque si dichiara a favore dell’Esame di Stato ritiene ci sia la necessità di: verificare con un tema la capacità di esposizione scritta, verificare con una prova d’indirizzo l’aderenza dello studio al percorso di studi scelto, un colloquio multidisciplinare in cui spicca l’esperienza “lavorativa” fatta durante l’ultimo triennio di studi. Ora, però, date le percentuali bulgare di diplomatə e l’origine pur sempre fascista di questo esame, non vi è mai stata una seria riflessione critica sull’opportunità di verificare aspetti che sono stati già ampiamente verificati durante i cinque anni di studi superiori. Inoltre, non regge neanche la questione del valore legale del diploma: si può tranquillamente assegnare senza punteggio se i consigli di classe e i docenti sono d’accordo alla fine del quinto anno.

Già, perché alla fine, lo status quo è già così: lə studentə si misurano con i TOLC universitari ben prima dell’Esame di Stato e sono ammessə ai corsi di laurea a prescindere dal voto sul diploma. Ci sono casi in cui il voto del diploma può portare agevolazioni dal punto di vista di tasse e borse di studio, ma anche in questo caso allora basterebbe allora l’indicatore ISEE. Non si capisce perché deve esserci anche il vincolo del voto del diploma – che magari può essere basso a causa delle difficoltà avute dallə studentə negli anni proprio a causa di qualche disagio socio-economico.

Forse, e qui sta l’anacronismo di oggi e che voglio denunciare in questo post. Alla fine della fiera, forse poche persone pensano davvero oggi che l’idea dell’esame gentiliano fosse sbagliata in toto, ovvero l’idea di una selezione in uscita basata esclusivamente sulla potenzialità individuale di ogni singolə studente. Del resto, Gentile era un ministro del governo fascista, quindi non è che ci si potesse aspettare che puntasse su un’idea di scuola democratica e progressista.

Il punto è che cosa facciamo noi oggi, dopo un secolo ormai: ci teniamo sul groppone questo fardello del 1923, nato dal classismo più puro e cristallino, e lo ammorbidiamo senza avere il coraggio di rivoluzionare. E se la selezione non avviene, materialmente, il giorno dell’Esame di Stato, avviene nelle coscienze di docenti e studenti che sentono il peso del giudizio, della selezione, dei voti. La spada di Damocle della valutazione del diploma pende non solo sullə nostrə studenti ma anche sul lavoro quotidiano che si svolge in classe.

L’Esame di Stato resta e ci vincola pesantemente, sia nella didattica sia nella vita di classe – soprattutto l’ultimo anno. Ma in realtà esso è piuttosto una pesante eredità del periodo più buio della storia italiana. Un’eredità che corrisponde a un rito che si ripete praticamente identico da 100 anni e con pochi accenni di critica.

Ecco, se questo post può servire a qualcosa o arrivare da qualche parte, è una critica radicale a un Esame che ha origini nel fascismo e oggi si incunea nell’insostenibile capitalismo meritocratico dei nostri giorni. La critica alle relazioni di dominio esistenti passano anche dalle idee ereditate dalle ideologie anti-democratiche di cui, in modi diversi, continuamo a percepire senza sosta i rigurgiti.

Immaginare una un’educazione più democratica e progressista, lavorare per un rifiuto della distopia meritocratica ormai imposta, sognare una società meno disuguale che affonda le sue radici in una scuola che crea comunità e non individui alienati, ecco, tutto questo passa anche attraverso una critica dell’Esame di Stato che, sebbene in forme diverse, resta tuttavia un prodotto della dittatura fascista che, non c’è bisogno di dirlo, pensava a una società non democratica e diseguale.

verifiche e voti, che stress

C’è l’obbligo di fare verifiche? La scuola pubblica, come tutte le pubbliche amministrazioni, ha bisogno di una legge in cui c’è scritto come fare le cose. Se manca la legge allora quell’aspetto non è normato. Per le verifiche
bisogna cercare un po’ ma una legge esiste. Un regio decreto del 1925 in pieno periodo fascista.
È l’articolo 79 del Regio Decreto n. 653, pubblicato il 4 maggio 1925. Questo articolo dice:
“I voti [allo scrutinio di fine scuola] si assegnano, su proposta dei singoli professori, in base ad un giudizio brevemente motivato desunto da un congruo numero di interrogazioni e di esercizi scritti, grafici o pratici, fatti in casa o a scuola, corretti e classificati durante il trimestre o durante l’ultimo periodo delle lezioni.”

Chi decide il “congruo numero”? Questo aspetto è chiarito nella Ordinanza Ministeriale n. 90 del 21 maggio 2001 all’articolo 13 comma 3: “Il collegio della docenti determina i criteri da seguire per lo svolgimento degli scrutini al fine di assicurare omogeneità nelle decisioni di competenza dei singoli consigli di classe. In sostanza noi docenti decidiamo il congruo numero di esercitazioni scritte e orali necessarie per desumere un voto in pagella. Tutto questo, come predisposto dal Regio Decreto del 1925. Quando, spesso, dico che siamo fermi a un mondo che non esiste più, mi riferisco proprio a queste cose qui.

Non c’è obbligo di associare un voto a ogni verifica o interrogazione. Il regio decreto del 1925, sebbene evidentemente vetusto, non obbliga in alcun modo ad associare a ogni esercitazione scritta o orale un voto da infilare sul registro. È abbastanza chiaro che questo obbligo specifico non esiste. Piuttosto, è una prassi che
adottiamo, ma perché lo facciamo se non è obbligatorio?

Sarebbe meglio mettere una fine al concetto “una verifica = un voto”. Le verifiche sono strenuamente difese come se fossero utili (per la studente, dicono) ma anche inevitabili (sennò, come fai a mettere i voti?).
Ma ci sono almeno due problemi evidenti.

1) Il vero stimolo di chi fa quella prova è uno solo: il voto. In più, è uno stress messa cosi: ottengo un voto
per una performance cronometrata. Che senso didattico ha di preciso? Boh.

2) L’osservazione del processo di apprendimento viene demandata al lavoro a casa senza possibilità dellə docente di intervenire. Come si fa a desumere un voto finale in pagella corretto, senza una accurata valutazione del processo di apprendimento?

Ma parliamo ora della perversa logica del voto della verifica. Se prendo un buon voto posso stare tranquilla e
staccare un po’ dallo studio. Credo sia lapalissiano. Dunque la ricerca del voto buono, con qualsiasi
mezzo, faticoso, legale o illegale, è volto a questa consapevolezza. Ma se è così, allora il voto non ha peso didattico: non è una valutazione intermedia ma solo una tappa salvifica o meno nel percorso annuale. Questo fa sì che alla fine la ragazza si focalizzano solo sul risultato degli sforzi, perché quel risultato può dare tranquillità oppure generare ulteriori ansie se minore del 6. In tutto questo, la didattica e l’apprendimento dove sono?

Più valutazioni meno voti, quindi. La valutazione non deve essere per forza sempre legata all’inserimento di un voto sul registro elettronico. La valutazione può essere un feedback su un lavoro svolto individualmente o in gruppo, oppure il risultato di un processo di apprendimento durato più settimane.
La legge del 1925 dice chiaramente che l’unico voto numerico da cui non possiamo sottrarci noi docenti è quello di fine periodo o fine scuola. Tutti gli altri voti che mettiamo durante l’anno sono praticamente evitabili. Quindi si possono esplorare metodologie diverse rispetto al solito ciclo delle tradizionali e autoritarie verifiche/interrogazioni con voti numerici.

In un’ottica democratica e anti-autoritaria, il voto è frutto di un processo che fa la docente a partire da valutazioni durante l’anno il più possibile trasparenti, condivise e consapevoli da parte della studenti. Se mettiamo al centro l’apprendimento della studenti, il rispetto dei loro tempi e la necessità di sbagliare e imparare da quegli errori, allora non possiamo puntare su verifiche/interrogazioni one-shot. Piuttosto, dovremmo puntare di più su una valutazione descrittiva unita a una autovalutazione individuale e di gruppo della studenti, così da desumere una valutazione finale partecipata e fare il modo che anche la parte valutativa sia occasione di apprendimento.

il pollo anticapitalista

Ogni volta che mi dichiaro vegano, non posso fare a meno di percepire quella sensazione – a tratti sgradevole – di aver pestato una merda dopo che sei uscitə di casa con il tuo vestito più elegante e nuovo. Non sono vegano da molto e non mi permetto di dare giudizi sull’alimentazione delle altre persone, anche perché sono consapevole che il mio è un percorso quotidiano fatto di scelte e riflessioni quotidiane.

Dicevo dunque, in gruppo sento sempre di aver pestato la merda quando affermo di essere veganə. Ma è un meccanismo strano, perché è vero che a volte vengo derisə – la grigliata, gli arrosticini, ecc. – ma capita sempre più spesso che le altre persone quasi si scusino con me.

Tipo: “eh, anche io alla fine mangio pochissima carne”, “la carne fa male, meglio limitare” e affermazioni simili. Ora, a parte il fatto che non si colga il punto etico di una scelta vegana, ovvero il benessere animale volto a evitare qualsiasi forma di sofferenza e sfruttamento animale, tuttavia il meccanismo di difesa delle persone mi sorprende sempre. Infatti ciò che le altre persone dicono sembra quasi un’ammissione di colpevolezza: hai ragione, fai bene, ma io non sono come te. Ma lungi dall’emettere sentenze, nonostante la confessione palese, è chiaro che l’ammissione di colpevolezza è logicamente debole, perché mette al centro del ragionamento sempre l’essere umano. Chi dice che bisogna mangiare meno carne lo dice per la salute, per il cambiamento climatico.

Questo antropocentrismo auto-indotto sembra essere una questione importante. Il capitalismo ha estratto energie ovunque, in qualsiasi ambito in cui si potesse generare un profitto. Lo ha fatto con i dati dei social network e lo ha fatto persino, pensate, nel campo delle riviste su cui si pubblicano gli articoli della ricerca scientifica (ne ha parlato Davide Lovisolo in questo post).

Quindi è abbastanza chiaro prendere atto che ormai noi tuttə abbiamo introiettata la logica del capitalismo. È chiaro che siamo stati modellati dal capitalismo a tal punto da curvare anche le nostre scelte alimentari, vegane o non vegane, agli interessi del capitalismo stesso. Infatti, anche lo stile alimentare è frutto del capitalismo. Banalmente, perché uccidiamo gli animali. E li ammazziamo per farne profitto. E puntare il dito su salute e cambiamento climatico vuol dire puntare il dito su industrie farmaceutiche e industrie fossili, le punte di diamante del capitalismo contemporaneo.

Ma dicevo, il capitalismo è interiorizzato nelle persone e ci lasciamo sfruttare ingenuamente, lasciamo che il capitalismo modelli le nostre vite. E quando una persona è un po’ ingenua e si fa sfruttare, si dice che è un pollo. È il linguaggio dello specismo, e anche del capitalismo: pure nella dialettica simbolica gli animali sono usati per corroborare tesi economiche.

Gli allevamenti intensivi di pollo poi sono tantissimi nel mondo. La carne di pollo è la più consumata nel mondo: lo dice il rapporto OECD-FACO Agricultural Outlook 2021-2030, capitolo 6, pagina 165, figura 6.1 (lo trovate a questo link). Come vedete, i polli sono gli animali più sfruttati al mondo: li alleviamo, li cresciamo, poi li uccidiamo e li mangiamo. Quindi attenzione quando vi chiamano “pollo”, ecco.

Ma al di là delle battute, mi pare ci sia poco da scherzare. Il rapporto FAO citato sopra parla anche del fatto che la produzione di carne, che poi è principalmente pollame, fa aumentare la concentrazione di gas serra nell’atmosfera e quindi accelera la crisi climatica, che poi è crisi solo per noi sapiens, non per il pianeta in generale che andrà avanti lo stesso anche senza di noi per altri 5 miliardi circa, prima che il Sole si trasformi in una gigante rossa. Siamo noi come specie che siamo agli sgoccioli. Nonostante questo, continuiamo a sfruttare i polli all’inseguimento del muoia Sansone con tutti i filistei.

Certo è che i polli saranno pure polli, ma si ammalano, come tutti i polli. Se poi sono a migliaia in allevamenti intensivi, beh, ancora più facile che i virus si diffondano e si generino varianti dei vari virus. Sembrerebbe un ragionamento ipotetico, invece no: è già successo purtroppo.

Il virus H5N1, detto anche “virus dell’aviaria”, ha già colpito svariati allevamenti di polli creando stragi su stragi. Dove? Ovunque, anche in Italia. Qui trovate un articolo dell’Arena, il giornale di Verona, del 9 luglio 2023.

Il virus H5N1 si diffonde principalmente tra uccelli, quindi anche tra i polli. Se avete letto l’articolo avete visto che è avvenuto un salto di specie, da polli a mammiferi, nella fattispecie cani e gatti. Naturalmente, ormai dovremmo averlo imparato dopo gli anni della Covid-19, più il virus circola più muta. E più muta più diventa probabile il salto di specie. E che cosa accade se si ammala homo sapiens di H5N1? Anche qui, purtroppo, è già successo: finora sono state infettate 300 persone e ne sono morte 200. Come potete vedere, il tasso di mortalità è alquanto elevato (qui trovate un domande-risposte veloce e informativo a cura dell’Organizzazione Mondiale della Sanità – per esempio, c’è scritto che mangiare pollo cotto non crea alcun problema di contagio da H5N1).

Insomma, ci siamo già dentro, anche se David Quammen parlò già – in modo preoccupato – dell’H5N1 nel 2012 nel suo libro Spillover – in cui Quammen parlava già in generale del rischio di pandemia a causa di un virus che saltasse di specie, cosa poi effettivamente accaduta con la Covid-19.

Ora vi chiedo: avete anche voi la sensazione che non si stia facendo nulla e che si stia solo sperando che non accada una nuova pandemia? Una cosa è certa: la colpa è del capitalismo, la corsa forsennata per sfruttare qualsiasi cosa esistente su questo pianete per riuscire a spremere del profitto.

Ritengo – ma questo è un mio parere personale – che la scelta vegana sia soprattutto una scelta antispecista, quindi politicamente orientata in modo forte contro ogni sfruttamento, quindi anticapitalistica. Ma siccome il capitalismo non può lasciarsi sfuggire di fare profitto anche con il veganesimo, ecco che ci propina prodotti e stili di vita conformi con la logica capitalistica dove lo sfruttamento è più nascosto stavolta: si annida nei salari oppure negli investimenti finanziari o nella reperibilità e nello sfruttamento di risorse di altre nazioni o foreste e suoli ad libitum. Se il virus H5N1 dovesse davvero arrivare la colpa sarà indiscutibilmente del capitalismo, anche se probabilmente servirà a poco riuscire a identificare il colpevole.

La domanda è come reagire. È ciò che mi chiedo ogni giorno. La mia vita – come quella di tuttə – è, per forza di cose intrisa di capitalismo. Le scelte che facciamo possono essere anticapitalistiche e avere un impatto serio? Oppure è tutta una grande illusione? Non so rispondere a queste domande, eppure continuo a fare quello che credo sia giustamente anticapitalista, per quanto possibile dai miei limiti. Una cosa però posso dirla. Non mangiare animali, almeno quello, è una scelta etica che sento parte del mio essere e che ha cambiato la mia vita: mi ha reso più liberə di quanto non fossi. Forse l’anticapitalismo si raggiunge prima di tutto liberandosi?

il voto in condotta è una cagata pazzesca

Non a caso uso per il titolo un richiamo alla celebre scena fantozziana. In quel frammento cinematografico, il direttore della ditta dove Fantozzi lavorava costringeva lə dipendenti a una “buona condotta” tramite una specie di sadismo cinefilo. Nell’occasione della battuta richiamata dal titolo, Fantozzi si ribella all’obbligo di buona condotta: decide di giudicare negativamente il film appena costretto a vedere, rinuncia al conformismo e trascina i suoi colleghi e le sue colleghe.

Un altro stupendo esempio cinematografico che riguarda la condotta, stavolta prettamente scolastica, è il meraviglioso capolavoro Zero in condotta di Jean Vigo. In questo film si trovano dei ragazzi molto vivaci che distruggono ogni minima parvenza di conformismo, ma non vi dico come va a finire. Consiglio di vederlo.

La “buona condotta” quindi è stata da sempre oggetto di analisi e niente come il cinema ha mostrato nel modo più schietto che cosa vuol dire subire le regole rigide del conformismo: quando sei spettatore o spettatrice guardi le cose da lontano e il grado di coinvolgimento massimo dura quanto dura il film, ma non subisci direttamente ciò che vedi.

Ma se lasciamo la finzione del cinema per tornare alla realtà della vita scolastica italiana, una rapida ricerca sull’origine del voto in condotta ci porta nel periodo più buio della nostra storia.

Infatti, il voto in condotta è legato indissolubilmente all’istruzione in Italia durante il fascismo.
Toh, chi l’avrebbe mai detto! Precisamente, tutto inizia con l’articolo 82 del regio decreto del 6 maggio 1923, n. 1054, il primo della cosiddetta “riforma” del ministro Giovanni Gentile.

Fun fact: il fascismo bocciava con 7 in condotta, ma questo articolo fu modificato solo nel 1977 (ora si boccia con 5 in condotta).

Se non sorprende affatto che la valutazione del comportamento sia
stata uno strumento educativo del regime fascista, desta invece stupore il fatto che sia non solo presente oggi, ma addirittura venga sempre più come caposaldo dell’istruzione
Credo ci siano almeno due fattori da considerare per un’analisi critica. Primo: chi valuta la condotta e perché.
Secondo: la valutazione della condotta come voto numerico.

Chi valuta la condotta? Verrebbe da dire “la docenti”. Ma è davvero così? Beh, dal punto di vista burocratico il consiglio di classe propone un voto base di una griglia che contiene alcuni indicatori.
Per esempio, il comportamento rispettoso, la puntualità, le consegne, atteggiamento di partecipazione e interesse alle lezioni. Quindi il voto lo mette il consiglio di classe, ma il vero giudice è lo status quo delle regole.

Infatti, basta prendere una qualsiasi griglia per capire che la valutazione della condotta è in realtà uno strumento sociale di rimozione del conflitto, di adattamento al quieto vivere. Oserei dire: un vero
strumento (subdolo) di controllo sociale. Già, perché per un 5 in condotta si può bocciare. Voi direte: è raro. Vero, però il punto non è la rarità, ma il fatto che questa eventualità sia possibile e potenzialmente utilizzabile.

Quindi la valutazione della condotta è, in fondo, un mero strumento educativo usato per creare, negli anni scolastici (si parte dalle scuole medie con la condotta, mentre alla primaria comunque c’è un giudizio…) adattamento alla società, perché associato al percorso che porta al titolo di studio con valore legale che può dare accesso a lavoro e università.

Lo ricordo di nuovo: questa faccenda del voto in condotta l’hanno introdotta i fascisti.

Ma si può riflettere ancora più in profondità. Comportamenti conflittuali, atteggiamenti disinteressati oppure consegne dei lavori non precise possono essere spia di problemi che vanno oltre la scuola e che la scuola (e chi
insegna) potrebbe addirittura non essere in grado di risolvere. Inoltre, pensando anche a episodi gravi come discriminazione e bullismo, scaricare la responsabilità sulla persona non fa altro che evitare analisi sistemiche dei vari problemi sociali che hanno radici profonde: perché se alla fine è solo colpa tua se ti comporti male e tu devi rimediare, allora perché interrogarci tuttə sulle responsabilità collettive che abbiamo?

Ma poi, perché “punire” un comportamento “non conforme” con un voto basso in condotta? Perché abbiamo un sistema educativo basato sul “premiare” con un buon voto solo chi si comporta bene secondo gli
schemi “conformi” della società? (schemi decisi da chi poi? Da chi ha potere nella
società, ovviamente). Anche di fronte a fenomeni gravi (che comunque potrebbero avere cause sociali
complesse) davvero non si riesce a immaginare un sistema educativo democratico non repressivo e punitivo? Lo ripeto: tutto questo è stato istituito dal regime in Italia dal 1922 al 1943, il fascismo.

Ma come mai il voto numerico per la condotta? Ma proprio perché il voto numerico ELIMINA ogni complessità di giudizio e di ricerca delle cause. Solo a me sembra assurdo assegnare a una persona un numero per il comportamento, con lo scopo di adattarle alle necessità dello status quo scolastico?
E potrei andare avanti. Per esempio: che senso ha sospendere, cioè allontanare da scuola, proprio coloro che avrebbero bisogno di un’educazione democratica? Forse l’esistenza stessa del provvedimento di sospensione è l’evidenza che la scuola, al momento, non è veramente democratica? Chissà.

Al momento la scuola è quel luogo in cui lə adultə che dirigono la società decidono cos’è meglio per lə ragazzə, in una specie di astoricità in cui problemi sociali restano esterni ed entrano solo come atteggiamenti “non
conformi”. Pur non potendo risolvere problemi complessi, la scuola, anziché proporre strumenti di controllo sociale come il voto in condotta, dovrebbe proporre dei momenti, direi costituenti della comunità scolastica, di scrittura condivisa delle regole. Se la scuola fosse più orizzontale e democratica forse non solo potremmo fare a meno del voto in condotta ma potremmo sperare in una scuola migliore della pessima società in cui viviamo e che la scuola, attualmente, continua a riprodurre con tutti i suoi difetti.

fisica e collettività

Qualche anno fa per la prima volta insegnavo fisica in prima liceo e ne sentivo un po’ la responsabilità perché in genere quando avevo avuto quarte o quinte come supplente tutt* odiavano sempre la fisica.

Pensai tutto il giorno precedente a come fare una lezione che non fosse una bugia: perché alla fine la fisica non è solo robe sbalorditive ma anche complessità e per capirla bisogna metterci la testa.

Allora entrai in classe, mi presentai e poi misi un po’ d’acqua in un bicchiere di vetro. A quel punto, un attimo prima di bere chiesi: quanto pesa l’acqua in questo bicchiere? Ci fu un dibattito, ci furono idee giuste e sbagliate, qualche persona parlò di contenitore (bicchiere? bottiglia? altro?). Insomma, dopo poco si parlò di massa e volume. E così introdussi il concetto di densità: massa diviso volume.

E allora, dissi: misuriamo la densità dell’acqua! Come fare, come non fare…no, ferm* tutt*: ognun* di voi lo faccia a casa, portate i vostri risultati e poi la prossima volta vediamo chi ci ha preso.

Bene. La volta dopo, 25 persone e 25 risultati diversi per la densità dell’acqua. Chi ha ragione? Vediamo su internet prof! 1 grammo su centimetro cubo? Oh caspita ma non viene a nessuno! Però ci siamo andat* vicino, forse dovremmo fare una media dei dati trovati da tutt*, prof. OK, facciamolo: urca viene “quasi” 1 grammo su centimetro cubo! Quindi chi ha ragione? Beh prof, comunque tutt* hanno trovato un valore compreso tra il più grande e il più piccolo e comunque intorno al valore vero, possiamo dire così? E diciamo così.

E qui chiedo: ma perché avete trovato valori diversi? Risposte: eh prof ma l’acqua può essere diversa. Eh prof io non ho misurato bene il mio bicchiere, eh prof la mia bilancia fa schifo, eh prof qua, eh prof là.

Però, ragazz*, se mettiamo insieme tutte le misure ci viene un valore simile a quello vero, quindi il contributo di tutt* è importante giusto? Sì prof, anzi, dobbiamo fare altre misure, altri bicchieri d’acqua…

Si può studiare fisica come pretesto per affrontare la complessità del mondo collettivamente? Io penso di sì, al di là di discipline, voti, esami, status quo.

quel maledetto registro elettronico

Una volta, in prima liceo, presi 2 in matematica. Poi un giorno vi racconto com’è successo ma oggi vorrei parlare di quello che è successo dopo. Suonata la campanella dell’ultima ora presi il bus e tornai dai miei e passai la giornata tranquilla. Sapevo che prima o poi quella storia sarebbe uscita fuori, ma ebbi innanzitutto tutto il tempo IO di elaborarla e potevo DECIDERE SE e QUANDO raccontarla ai miei genitori. Oggi tutto questo non è possibile.

Ora che sono prof so che non appena metto un voto sul registro immediatamente anche i genitori vedono il voto. Si è deciso di perdere quella fase di crescita, in cui una brutta notizia (o una bella anche) poteva essere per un attimo un segreto adolescenziale, una sorpresa: elaborare un brutto voto e trovare le parole per confessarlo, oppure tornare a casa con la gioia di annunciare un bel risultato.

Il Registro Elettronico tutto questo ce l’ha tolto via. Ma ha fatto anche di peggio: lə studenti possono vedere CONSTANTEMENTE la loro media aritmetica dei voti, materia per materia. La scuola diventa così un videogame e diventa sempre più difficile disintossicarsi dal voto numerico. Usare la tecnologia può essere utile, ma se la tecnologia appiattisce ogni cosa, standardizza per ogni persona anche l’elaborazione di un voto ottenuto, allora forse stiamo sbagliando qualcosa.

E poi, infine: ma perché tutti i voti della scuola sono su software di aziende private? Perché non esiste un Registro Elettronico creato dallo Stato? Perché la scuola ha deciso di dare in appalto tutte le informazioni sulla valutazione?

tuttə sono portatə per la matematica

In ogni classe c’è sempre qualcunə che pensa di non essere portatə per la matematica. Perché? Spesso è statə convinto di ciò perché fa molti errori, sin da piccolə. Ma se l’errore diventa subito discriminante, allora è complicato impostare una didattica fondata su “sbagliando si impara”.

Oppure c’è il meccanismo dell’esasperazione meritocratica e competitiva: la mancanza del rispetto dei tempi di apprendimento in favore della raccolta delle eccellenze emergenti. Per la serie: “dovete prepararvi alla vita, è una giungla”.

Insomma, in modi diversi si creano pregiudizi che portano a vedere la matematica come noiosa, tecnica, astratta e, soprattutto, elitaria. Niente di più falso: la matematica è una disciplina inventata da altri esseri umani quindi è per definizione “per tuttə”.

A scuola però si crea, volutamente, una discriminazione artificiale blaterando di talento, dono, genialità, senza mai andare a indagare sulle cause che hanno portato ad apprendimenti diversi nel corso del tempo. E, infine, c’è chi getta la spugna, cambia o lascia la scuola. Alè.

Chi propone una educazione democratica deve ambire a rovesciare questa narrazione e crearne una tutta nuova: siamo tuttə portatə per la matematica se mettiamo al centro il processo di apprendimento che rimuove ogni ostacolo educativo, per quanto possibile, con una prassi da re-inventare in un quotidiano processo di ricerca e azione. Una prassi radicalmente diversa da quella abituale fatta solo di lezioni e voti.

Ce lo chiede l’articolo 3 della Costituzione: “[…] è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Così l’insegnamento della matematica assume un aspetto molto più interessante del semplice (e inutile) travaso di conoscenze: può essere fonte di un’educazione basata sulla cura e sulla fiducia reciproca, anziché sulla mera memorizzazione/riproduzione di contenuti e sulla competizione.